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Le didattiche difficili. Problemi di frontiera dell’insegnamento storico

Antonio Brusa

È sempre difficile insegnare storia. Lo è per i motivi, notissimi a qualsiasi insegnante,
conosciuti e studiati dalla ricerca storico-didattica fin dai suoi esordi: la complessità
della disciplina, lo statuto indiretto delle conoscenza storica, la sua natura
controversiale, il complesso bagaglio cognitivo-epistemologico che essa presuppone,
unito al disinteresse dei giovani verso il passato, e così via.
La pratica didattica, ormai secolare, ha abituato docenti e studiosi a “convivere” con
questo insieme di problemi. Questi costituiscono l’universo, all’interno del quale si sono
costruite risorse e risposte (modelli di spiegazione, di narrazione, di laboratorio, di
argomentazione). Tutti riteniamo che queste risorse costituiscano l’attrezzatura che
un docente normale dovrebbe padroneggiare, per affrontare il suo lavoro e ci chiediamo
in quale modo raggiungere questo obiettivo ideale.
Esplodono, ai confini di questo universo, i problemi di frontiera. Quelli che una
dotazione normale sembra incapace di risolvere. Essi emergono qua e là, nella
riflessione didattica, nella pratica e, soprattutto, nella pubblicistica, generando una
sorta di “cultura dell’emergenza”, basata sull’annuncio, sullo scandalo. Quando
questo succede, vorremmo non essere colti di sorpresa. Per giungere a questo
risultato, occorrere, a mio modo di vedere, capire se queste “didattiche difficili”, siano
sporadiche ed eccezionali, oppure se ci rivelino qualcosa che, al momento non vediamo,
nell’universo quotidiano della didattica. Se così fosse, una riflessione sulle “didattiche
difficili” risulterebbe utile anche nella prassi normale dell’insegnamento.
In queste “didattiche difficili” potremmo includere:
a. Problemi di natura epistemologica (il tempo, lo spazio, la documentazione, la
verità, la certificazione storica)
b. Le Questioni Socialmente Vive della storia antica e medievale: rapporto fra storia,
identità e appartenenza.
c. Le Questioni Socialmente Vive della storia moderna e contemporanea: la memoria, la
riconciliazione, il risarcimento, la storia legale.
d. La storia immediata/attuale: il laboratorio del tempo presente
a. Problemi di natura epistemologica
Questo è probabilmente il campo dove la “lunga convivenza”, ha prodotto modalità
di soluzione e di problematizzazione che – un tempo considerate efficaci e innovative
– oggi (proprio per la loro ripetitività scontata) rischiano di diventare gli ostacoli
principali all’insegnamento.
Un buon esempio è quello del “tempo profondo”: con questo termine si indicano i
tempi lunghissimi del processo di ominazione, e in generale, della grande storia
dell’universo. Questo concetto, abbastanza recente nella riflessione scientifica, apre,
all’interno della didattica storica una contraddizione acuta. Infatti, le modalità di
insegnamento dei tempi lunghissimi sono tutte basate sull’analogia fra i tempi
dominabili razionalmente – quelli della vita quotidiana – e il tempo della preistoria. Da
questa prospettiva nascono le “linee del tempo”, e le metafore usate nella didattica
corrente, come “la giornata e la storia”, “la vita personale dell’allievo e la storia”,
“l’orologio e la durata del tempo storico”, e così via.
La riflessione sul tempo profondo ci mette in guardia. Ci avverte che i tempi del
quotidiano e il tempo profondo sono incommensurabili, sia dal punto di vista della loro
concezione, sia dal punto di vista della narrazione. I connettivi (logici e linguistici) con i
quali si tengono insieme i fatti di una giornata in un’unica storia comprensibile sono
identici dal punto di vista formale (dopo, per questo, infatti), ma del tutto diversi dal
punto di vista sostanziale. Non è paragonabile, in poche parole, una connessione fra
due reperti, separati da un milione di anni, con una connessione che un bambino
stabilisce fra il vaso di marmellata rotto, e il gatto che passeggia sul tavolo.
Ne consegue che l’obiettivo di una didattica avvertita dovrebbe essere quello di
avvertire gli allievi che “non si possono paragonare” i tempi quotidiani con quelli epocali
del mondo e della storia umana. Esattamente il contrario di quello che solitamente si
persegue.
Si deve sottolineare, infine, che questa confusione fra tempi alimenta un equivoco
disastroso dal punto di vista sociale, sull’evoluzione dell’umanità, percepita solitamente
come una linea sequenziale.
Questo primo esempio di “didattiche difficili”, ci porta a capire come, la scuola stessa,
le sue “buone pratiche” abituali, a volte diventa essa stessa il veicolo attraverso il quale
si costruisce un cattivo rapporto con la conoscenza.
In secondo luogo, ci conduce ad un argomento inedito, ma decisivo nella nostra
società: come rendere credibile e accettabile “l’incomprensibilità”, di un determinato
fenomeno (questo è un tema chiave nella diffusione sociale delle conoscenze relative
al mondo quantistico, all’infinitamente piccolo e all’infinitamente grande).
Il conflitto avviene fra le conoscenze comunque diffuse e la constatazione che la
“soglia di uno loro comprensione accettabile” è molto alta. Dobbiamo rassegnarci alla
banalizzazione delle conoscenze, precondizione necessaria per la loro diffusione di
massa, oppure ha senso lanciare una ricerca volta a trovare una mediazione efficace?
(ed è evidente che questa non potrà mai essere lasciata alla buona volontà e alla pur
fertile fantasia delle maestre e dei maestri elementari).
dell’arroganza cognitiva, che spinge le società moderne (e soprattutto occidentali) a
ritenersi in diritto di “conoscere senza fatica”. E, per converso, a disegnare un nuovo
ruolo della formazione, che forse, dovrebbe contrastare questa pretesa, piuttosto che
assecondarla.
b. Le Questioni Socialmente Vive (QSV) della storia antica e medievale: rapporto
fra storia, identità e appartenenza
Consideriamo in questa categoria problemi relativi all’insegnamento di fatti di storia
antica, e a volte molto antica, che assumono le caratteristiche delle questioni
socialmente vive. Le Crociate, o l’etnogenesi dei popoli europei, ad esempio, sono due
questioni tipiche della storiografica erudite, che, ai nostri giorni assumono rilevanza
politica e fanno parte della discussione sociale intorno a temi quali, l’identità europea,
l’ingresso della Turchia in Europa, o il rapporto fra europei e extraeuropei. Sono
diventate oggi, per motivi che in questa sede non dobbiamo affrontare, delle QSV.
Questa espressione, creata dalla recente riflessione didattica francese, significa che il
dibattito su un determinato argomento scientifico coinvolge larghe parti della società.
Significa, ancora (come sa chiunque oggi voglia parlare della nascita dell’Islam in
classe) che quel particolare tema troverà gli allievi già predisposti verso questa o quella
soluzione. Essi entreranno in classe con argomenti e prese di posizione, e soprattutto
con una partecipazione emotiva, che raramente riscontriamo quando si parla di fatti
così antichi. In questi casi, il docente ha una sua attrezzatura consolidata: i punti di
vista incrociati; il riconoscimento delle proprie colpe e dei meriti altrui; la critica delle
fonti e delle teorie storiografiche, così come la critica dei punti di vista e dei media.
Gli studi dell’ultimo trentennio, su questo genere di questioni, ci avverte di una
complicazione che aumenta a dismisura la complessità del problema, e rischia di
mettere fuori gioco la strumentazione normale. La ricerca ci mette di fronte al fatto che
intorno ai fatti “sensibili” della propria identità e delle “alterità”, il passato ha spesso
lavorato intensamente. Spesso, le fonti che noi abbiamo a disposizione non sono “ciò
che rimane di quelle antiche vicende”, ma “lo strumento che le produssero e, talvolta,
le inventarono”. Questa funzione mitopoietica della storia, ha prodotto racconti di
successo, che sono diventate le nostre vulgate. Questo crea una sorpresa didattica.
Infatti, qualsiasi insegnante sa che nel manuale si trovano le conoscenze “scontate”,
quelle che occorre sapere per poter poi, ad un livello successivo, accedere ai problemi.
Per quanto una lunga ricerca didattica, di analisi dei manuali, sia a livello internazionale
che nazionale, ci ha avvertito che “il modo” con il quale i manuale raccontano non è
mai neutro, tuttavia, il manuale resta il luogo dove “si trovano i fatti che occorre
conoscere”.
Ad esempio: il manuale racconta il fatto “le invasioni barbariche”. Poi si discute se
queste furono positive, negative, violente, pacifiche ecc.
Rispetto a questa divisione di compiti, la storiografia ci dice semplicemente che quei
barbari erano “inventati”. I fatti vengono improvvisamente a mancare. A questo primo
livello di problemi, se ne deve aggiungere un secondo, determinato dal fatto che, in
genere, questo complesso di stereotipi è stato assunto come reale da entrambi i
contendenti (si pensi ad esempio alle Crociate, altro esempio di “fatto inventato”), che
si differenziano fra di loro, appunto, per una diversa valutazione di quello che appare
un fatto incontestabile.
La storiografia impone alla didattica una batteria inedita di domande:
– come muoversi in un dibattito nel quale entrambi i soggetti sono portatori di errori e
stereotipi?
– come rendere curricolari determinate acquisizioni (riservare le conoscenze critiche ai
livelli superiori? Riservare quelle mitopoietiche a quelli di massa?)?
– come mettere in guardia sulle “mine”, che troverà proprio in quei terreni che, fino a
quel momento, considerava scontati?
c. Le QSV della storia moderna e contemporanea: la memoria, la riconciliazione, il
risarcimento, la storia legale.
Dall’età moderna a quella contemporanea provengono alcune questioni socialmente
vive, diversamente “scottanti”, a seconda delle nazioni: la tratta degli schiavi, il
colonialismo, le dittature del Novecento, la resistenza e le violenze, il crollo del
comunismo ecc. Esse sono la prova quasi quotidiana dell’uso politico del passato
recente; ma sono anche alla base di questioni rilevanti, spesso anche dal punto di vista
delle relazioni estere fra gli stati: basti pensare ai temi della riconciliazione, del
risarcimento e della riparazione e così via. Probabilmente esse si riassumono in una
questione mondiale: quale è il significato e il senso della modernità? È il portato ultimo
della colonizzazione, e quindi dell’estensione al pianeta dei modi di vita occidentali? E’
da considerarsi positiva o negativa, e a seconda dei casi, chi ne deve essere il
beneficiario o chi ne deve pagare le spese?
Questa quadro mondiale rende socialmente sensibili ricerche un tempo destinate al
solo dibattito fra eruditi: si pensi alla vicenda francese successiva alla pubblicazione
del lavoro sugli schiavi di Olivier Petré-Grenouilleau; o al dibattito internazionale
scaturito dalle tesi sulla grande divergenza di Pommeranz.
Sembra quasi che solo una paratia sottilissima separi la stanza del ricercatore da
quella della politica. La traduzione di queste opere in dibattito pubblico è pressoché
immediata. Rapidamente avviene una sorta di ritrascrizione: il dibattito scientifico viene
riformulato secondo gli stilemi e le ritualità del dibattito mediatico/politico. Come uno
tzunami, un’onda di ritorno si abbatte nelle scuole. Diventa difficile imporre i ritmi della
discussione storica, se i soggetti sono già formati a quelli della narrazione mediatica,
se la posta in gioco non è più quella della ricerca della verità, ma l’acquisizione di un
vantaggio, il riconoscimento di un torto, lo sdoganamento di un partito, o un
risarcimento economico o giuridico.
E la necessità di attivare Osservatori è fondamentale, dal punto di vista didattico. Così
come la necessità di considerare attentamente le attività legislative in questo carneo:
indotte dalla immediate risposta che le società danno a queste teorie.
d. Storia immediata/attuale: il laboratorio del tempo presente
Nata in Francia (storia immediata, histoire au present), ma diffusa anche negli Usa
(teachable moments) l’esigenza di affrontare in classe i temi della contemporaneità si
fa sempre più urgente. La guerra, le guerre, le catastrofi, cambi di governo e elezioni
entrano nelle aule, esigono l’interesse degli allievi. Non si può sempre rimandarne la
discussione alle classi terminali (quando, data la velocità dei nostri tempi, la loro
urgenza sarà con ogni probabilità abbondantemente esaurita); né si può interrompere il
corso delle lezioni e la logica di una programmazione.
Ma questi giusti comportamenti hanno alcuni risultati spiacevoli. Poiché nessuno aiuta
gli allievi ad organizzare la sua conoscenza del mondo attuale, egli diventa subalterno
ai produttori mediatici di comprensione. E, dal canto suo, la scuola gli fa intendere che
l’obiettivo di fornirlo di strumenti di comprensione del mondo, è del tutto nominale. Essa
si occupa in verità di fatti passati, non della sua realtà. Ma l’insegnante di storia sa che
la sua disciplina è lo strumento eccellente di comprensione della realtà. Non può
accettare che i suoi allievi ne vengano privati. D’altra parte, egli sa che il possesso di
questo strumento di comprensione, esiste solo se si è studiato, con una certa
accuratezza, il passato.
Potremmo dire che si tratta di una contraddizione perenne, nell’insegnamento della
storia. Essa, acquista ai nostri giorni un’esasperazione particolare, dovuta al fatto che
tutti abbiamo la sensazione di vivere al centro di cambiamenti epocali e rapidi. E tutti
abbiamo disperato bisogno di capire.
Una risposta didattica può essere quella del “laboratorio del tempo presente”. Una
struttura che si attiva fin dal primo anno di insegnamento, durante la quale si insegna
agli allievi ad provare su fatti contemporanei, gli strumenti e le capacità apprese (non
solo in campo storiografico). Un modulo, dalla durata limitata, che non ha lo scopo di
dare la “verità” sui fatti: ma insegnare una critica, una raccolta di fonti, un confronto di
opinioni, un’argomentazione. Ciò, in pratica, che a quel momento della
programmazione, gli allievi sanno fare.
Alcune conclusioni
a) le solidarietà fra storia e politica, sulle quali si erano costruiti i percorsi formativi in
passato, sembrano interrotti. Probabilmente è il tempo di ricostruire un patto formativo,
su basi diverse, molto più cognitive e meno identitaristiche che in passato. E’ un nuovo
patto, la cui urgenza è segnalata dal fatto che nella maggior parte degli stati, la perdita
di rilevanza politica dell’insegnamento storico si sta traducendo nella sua progressiva
riduzione.
b) le vulgate, i racconti sui quali si costruivano queste solidarietà, andrebbero
interamente riviste, alla luce della nuova situazione mondiale e dei nuovi dati della
ricerca. Questo compito non può essere lasciato né agli autori di manuali, né alle case
editrici né tantomeno alla buona volontà degli insegnanti.
c) Poiché le QSV sono oggetto di ricerche di punta, di cantieri storiografici aperti,
occorre rivedere il rapporto fra insegnamento e ricerca, basato sull’idea che
nell’insegnamento dovessero confluire solo i prodotti certi e consolidati della ricerca.
Probabilmente è il tempo di considerare anche i cantieri aperti, come cantieri di
formazione di massa.
d) dal momento che molti di questi argomenti non portano a conclusioni univoche e
fondamentale della formazione quella di “imparare a discutere”. La discussione
scientifica, in quanto tale, potrebbe entrare nelle competenze di base, da comunicare
attraverso la scuola.
e) Dal momento che le QSV, esistono solo grazie ai media, è evidente che
l’educazione ai media deve essere integrata all’interno di una formazione storica
efficace.
f) Dal momento che le QSV coprono molti aspetti della vita sociale, molte questioni
etiche, di rapporti con gli altri (per esempio le questioni interculturali), sembra evidente
che una loro assunzione, all’interno dell’insegnamento storico, eviterebbe quel
proliferare delle educazioni (all’intercultura, alla pace, allo sviluppo sostenibile ecc),
nate probabilmente dalla perdita di incisività e di senso di questa disciplina.